A cento anni dal volo dei fratelli Wright

di Gaetano Di Modica.

Il 17 dicembre 1903, cent’anni fa, negli Stati Uniti d’America, esattamente nel Nord Carolina, due bravi e simpatici fratelli, Wilbur e Orville Wright, riuscivano ad alzarsi in volo per una manciata di secondi e per qualche metro con un loro apparecchio spinto  da una rudimentale elica azionata da un ancora più rudimentale motore. È una data inserita come pietra miliare nella storia dell’ aviazione, e anche dell’umanità.
L’idea di volare l’uomo l’ha sempre avuta: il paragone con gli uccelli, piccoli o grandi che fossero, era lì, a portata di mano. Quel poveraccio di Otzi, l’uomo di Similaun, probabilmente, poco prima di venire racchiuso nella sua bara di ghiaccio che l’ha conservato sino a noi, si sarà detto che se invece di due gambe avesse avuto due ali a casa ci sarebbe tornato.


Qualcuno provò a inventarle, le ali, e qualche ricordo è arrivato sino a noi. Della prima trasvolata aerea  dell’Ellesponto, da Creta a Santorini, chissà perché tutti parlano di Icaro e pochi ricordano Dedalo che ideò il raid, costruì la macchina volante e con una corretta condotta di volo raggiunse la meta che si era proposto. Icaro, poveretto, alla fine dei fatti, ci fa la figura dello sciocco presuntuoso e incapace che con una maldestra utilizzazione del mezzo volante provocò il primo disastro aereo della storia. (Sarà mica che già allora i mezzi di informazione tendessero a privilegiare le notizie catastrofiche piuttosto di quelle belle?). Comunque, dopo circa un tremila anni, qualche  anno fa, la traversata Creta-Santorini fu realizzata su un aereo mosso da un’elica azionata a pedali.  L’impresa, sponsorizzata da una industria chimica americana, la “Du Pont”, che fornì i materiali speciali per costruire il mezzo aereo, fu giustamente indicata come “Progetto Dedalo”!
C’è poi la storia di Simon Mago che all’epoca di Nerone andava dicendo in giro di essere in grado di volare sostenuto da demoni, finché non fu abbattuto dalla contraerea di San Pietro che con preghiere ben mirate lo fece precipitare. Negli ambienti aeronautici si ritiene però che anche senza le preghiere sarebbe caduto ugualmente! Figurarsi i demoni! Non ce n’era uno che avesse la minima idea della dinamica dei fluidi che è determinante nella conduzione delle barche in mare e degli aerei in aria!
Si  ha notizia che in Cina si facessero volare aquiloni alcuni dei quali, pare, in grado di sostenere un uomo!
Nella storia del volo non può mancare il nostro grande genio italico; figurarsi  se Leonardo da Vinci si perdeva l’occasione! Affrontò il problema del volo con il suo caratteristico approccio scientifico. Nel "Codice sul volo degli uccelli" conservato nell’Archivio di Stato di Torino, sono studiate e descritte soluzioni per macchine volanti che verranno realizzate cinque secoli dopo. Un paio di anni fa un audace paracadutista inglese provò il paracadute ideato da Leonardo; è sopravvissuto! In fin dei conti oggi gli elicotteri volano sulla base dell’intuizione di Leonardo sulle possibilità sostentatrici di una superficie elicoidale rotante. Il rotore dell’elicottero e l’elica lavorano sullo stesso principio! All’epoca i chimici erano tutti presi dallo studio della pietra filosofale e dell’elisir di lunga vita; se si fossero dati allo studio dei materiali e avessero fornito a Leonardo quelli giusti, nati dalla loro fantasia nel secolo scorso, chissà cosa sarebbe saltato fuori!
Poco dopo, intorno al 1500/1600, l’approfondimento e la razionalizzazione di un approccio al problema verificò che l’aria aveva un peso e che pertanto poteva sostenere qualche cosa che fosse più leggero. Ci si provarono in tanti, tra questi val la pena di ricordare la “barca aerea” disegnata dal Gesuita italiano Padre Francesco Lana nel 1670. L’idea era buona: sollevarsi attaccati a un recipiente reso più leggero dell’aria. Nel disegno era una barchetta (con una vela per dirigerla!) tenuta su da quattro globi di lastre sottili di rame in cui fosse fatto il vuoto. Per fortuna non ci si provarono: i globi si sarebbero schiacciati sotto appunto la pressione dell‘aria .
A fine ‘700 due astuti fratelli di Lione  affrontarono con un altro approccio il problema del volo. Un aerostato ad aria calda, che in loro onore fu chiamato “mongolfiera”, salì nel cielo di Annonay, vicino a Lione. Joseph ed Etienne Mongolfier erano tutt’altro che stupidi ! A bordo non ci salirono loro, ci misero un paio di animali a cui nessuno chiese mai che effetto faceva volare!
La strada era aperta; qualche mese dopo un fisico francese, un certo Charles, riempì un pallone invece che con aria  calda con dell’idrogeno che qualche anno prima un chimico inglese aveva isolato, scoprendo che era più leggero dell’aria. Il pallone fu battezzato “charlière”. Il primo a volare con quello che si sarebbe poi chiamato “il più leggero dell’aria” fu il francese Pilatre de Rozier. Volle strafare, e dopo alcune ascensioni, abbinò una mongolfiera ad aria calda con una “charlière” a idrogeno. Com’era facilmente prevedibile dopo alcuni minuti di volo l’idrogeno prese fuoco: fine di Pilatre, che comunque, essendo nobile, molto probabilmente sarebbe stato ghigliottinato un dieci anni dopo durante la Rivoluzione Francese!
Val la pena di sottolineare che l’11 dicembre 1783, sei mesi dopo la sua fondazione e pochi mesi dopo l’esperienza dei Montgolfier, l’Accademia delle Scienze di Torino  riuscì a mandare in aria un pallone aerostatico a idrogeno per la prima volta in Italia. Alle 11 del mattino, fuori da Porta Susina, il pallone si levò all’altezza delle nuvole e scomparve. Comunque il volo con il più leggero dell’aria si sviluppò sino ai grandi dirigibili degli anni ‘30 del ‘900: fino a qualche anno fa ne girava ancora uno per réclame, della Good Year, che si reggeva con un altro gas meno pericoloso dell’idrogeno, ma molto più caro, l’elio. I dirigibili avevano delle grandi limitazioni di carattere aerodinamico, purtuttavia la prima traversata aerea dell’Atlantico, dalla Scozia a Long Island fu effettuata il 19 luglio 1919 da un dirigibile britannico in 108 ore alla media di circa 90 km all’ora.
Nell’800 ci si misero in molti a studiare il modo di far volare un più pesante dell’aria sulla spinta delle intuizioni di Leonardo e di un simpatico baronetto inglese. Sir George Cayley, a inizio ‘800, come Leonardo, studiava il volo degli uccelli. In più sapeva dalle esperienze di Torricelli sulla natura dell’aria, che questo miscuglio di gas opponeva una resistenza agli oggetti che si muovevano in essa e che quindi era in grado di sostenere oltre agli uccelli e agli insetti volanti, perchè no?, anche l’uomo. Costruì vari modelli, alcuni dei quali grandi da sostenere un uomo. Convinse il suo riluttante cocchiere a provarne uno. Dopo la prova, peraltro riuscita, il cocchiere si licenziò e andò a cercarsi un altro padrone meno matto. Tempi duri per i cocchieri!
Il XIX° secolo fu tutto un fiorire di studi e tentativi per volare sostenuti da ali e per realizzare propulsori adatti  alla bisogna. L’inglese Stringfellow, fra gli altri, ci provò con un piccolo motore a vapore con risultati interessanti anche se estremamente modesti. Ci si provò persino con modellini dotati di elica azionata da fasce elastiche! Nomi come Pénaud, Chanute, Mouillard contribuirono in varia misura a perfezionare via via modelli sempre più evoluti in cui comparivano fra l’altro rudimenti di superfici di comando.
Un robusto austriaco, Otto Lilienthal, mise a punto un sistema di ali (che ricordano un pò i nostri deltaplani di adesso) con cui effettuò molti voli realizzando tra l’altro i primi comandi direzionali.
In quegli anni un simpatico ingegnere francese, Clément Ader, si costruì  un apparecchio rudimentale che dotò di un motore a vapore di una ventina di cavalli che agiva su un’elica di canne di bambù, col quale nell’ottobre del 1890 riuscì a fare un balzo di una cinquantina di metri, nel parco del Castello di Armainvilliers, vicino a Parigi. In mancanza di testimoni il volo non fu omologato! Fu anche profeta delle possibilità del nuovo mezzo. In un suo saggio scrisse: “Sarà padrone del mondo chi sarà padrone dell’aria“.
Insomma ai primi del ‘900 i tempi sono maturi per un approccio più pratico e realizzabile al problema del volo. E sulla scena compaiono loro, i mitici fratelli Wright, Wilbur e Orville che a Dayton,  nell’ Ohio, avevano un negozio per la vendita di biciclette (che zitte zitte stavano sostituendo i cavalli dei cowboy) con annessa officina per le riparazioni. Non so come, vennero a conoscenza di tutte le vicende aeronautiche che si svolgevano in Europa, si appassionarono al volo, documentandosi sulle esperienze dei pionieri, arricchendosi però in esperienze personali e sopratutto affrontando in modo direi scientifico i problemi di stabilità e direzionalità (realizzarono perfino una rudimentale galleria del vento per delle prove di laboratorio!). Dai e dai, alla fine riuscirono a costruire una macchina volante in grado di rispondere con sicurezza ai comandi di direzione, inclinazione e assetto laterale e soprattutto di essere dotata di un motore da loro realizzato, a quattro cilindri raffreddati a acqua, del peso di 77 chili, in grado di sviluppare una potenza di 12 cavalli e azionante due eliche propulsive controrotanti (il che portava a compensare gli effetti giroscopici contrari delle due eliche) molto rudimentali ma rispondenti allo scopo! E così il 17 dicembre del 1903, sulle Kill Devil Hills, a Kitty Hawk, nel North Carolina, alle ore 10,35 Orville Wright effettuò il primo volo del mondo con un apparecchio a motore, che avevano battezzato “Flyer”, che durò 12 secondi su un percorso di 36 metri! Nello stesso giorno effettuarono altri voli, uno dei quali durò quasi un minuto, coprendo una distanza di 250 metri. Il “Flyer” aveva un’apertura alare di 12 metri e pesava a vuoto 275 chili! Dopo l’ultimo volo una raffica di vento lo distrusse , ma ormai la strada era aperta!
Con il mitico volo del “Flyer” era iniziata una nuova era della storia del volo. I fratelli Wright svilupparono la loro attività aeronautica costruendo altri modelli via via sempre più perfezionati, migliorandone le prestazioni, con motori più potenti. Wilbur morì nel 1912 di febbre tifoidea, Orville gli sopravvisse sino al 1948 in tempo per vedere la loro realizzazione trasformarsi in modo assolutamente imprevedibile ai loro inizi.
Lo sviluppo del mezzo aereo prese da quel momento un andamento esponenziale. Dalle prime esibizioni (una delle quali a Torino del pilota francese Delagrange intorno al 1908) alle performances più spettacolari. Nel 1909 la prima trasvolata della Manica in 36 minuti da Calais a Dover del francese Louis Blériot. Nel 1910 la traversata delle Alpi da Brig a Domodossola del peruviano Geo Chavez, nel 1911 il volo Parigi- Roma di Andrée Beaumont, nel 1913 la traversata del Mediterraneo da Saint Raphael a Biserta in Tunisia di Roland Garros (aveva benzina per 8 ore di volo, ce la fece in 7 ore e 53 minuti!).
Allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, l’aeroplano era ancora per certi aspetti un giocattolo che però, ahimé, tre anni prima nella campagna di Libia contro i turchi, gli italiani avevano dimostrato che poteva essere mortale. In effetti in quella occasione gli aerei furono prima impiegati con scopi di ricognizione, per i quali erano evidentemente insuperabili, ma poi se ne individuarono altre possibilità. Il 1° novembre 1911 il tenente Gavotti lanciò da un aereo su Ain Zara la prima bomba, una Cipelli di due chili di peso, la cui eco internazionale fu certamente superiore ai danni provocati, ma, tant’è, un’altra era era cominciata: per la prima volta un aereo colpiva il nemico! L’aereo era un monoplano Etrich-Taube di 15 metri di apertura alare con motore Mercedes a 6 cilindri in linea raffreddati a liquido, da 100 cavalli, velocità massima 100 km/h, 4 ore di autonomia. Gli Arabi, fino a quel momento, credevano che quei grossi aggeggi che volavano sulle loro teste fossero dei santoni mussulmani che li incitavano al combattimento; ci rimasero male!
Erano passati dieci anni dal primo volo a Kitty Hawk e già si costruivano aeroplani in grado di volare a oltre 100 chilometri all’ora, di salire a qualche migliaio di metri, di coprire distanze di centinaia di km. Il motore del primo Flyer forniva un cavallo di potenza per ogni sei chili di peso; il Liberty 12, il miglior motore di aereo della prima guerra mondiale ne forniva uno per chilo  (il Rolls-Royce Merlin degli Spitfire della seconda guerra mondiale ne fornirà uno per si e no mezzo chilo di peso!).
Com’era successo in Libia, gli aeroplani in guerra furono dapprima impiegati con scopi ricognitivi, ma poi purtroppo qualcuno cominciò a sparare con pistole, fucili e mitragliatrici. Era nata la guerra aerea!
Furono realizzati aerei sempre più veloci, più armati, in grado di trasportare bombe con un potenziale distruttivo ben superiore alla bomba del tenente Gavotti! Il Generale italiano Douhet, nato a Vercelli, figlio di un nizzardo che nel 1859 aveva optato per l’Italia, pubblicò nel 1922 un saggio, divenuto celebre, sulla guerra aerea in cui affermava tra l’altro che : “... il prossimo conflitto sarà vinto da quello dei due avversari in grado di distruggere con la sua aviazione il potenziale industriale dell’altro...”, aggiungendo però “... a parità di sviluppo tecnologico!...”
Come aveva ragione! E la postilla troverà la sua conferma nel più recente conflitto vietnamita.  Bombardieri estremamente sofisticati, del valore, allora, lira più lira meno, di una decina di miliardi, con un equipaggio di 6 o 7 uomini del costo  (solo di preparazione evidentemente!) intorno ai 500 milioni l’uno, per colpire dei poveracci che al massimo avevano una bicicletta, ma che per lo più andavano a piedi! Non aveva senso!
L’intervallo tra le due guerre fu tutta una evoluzione verso il più veloce, il più capace nel trasporto, il più alto, verso le performances più spettacolari, i voli sulle grandi distanze, le traversate dell’Atlantico. La prima in assoluto fu quella di Alcock e Brown, inglesi, che, nel 1919, a bordo di un bimotore Vickers volarono da Terranova all’Irlanda in 15 ore di volo. Poi la più nota impresa di Lindberg nel 1927 da New York a Parigi. L’impresa di Lindbergh si distingue dalle precedenti trasvolate atlantiche per il fatto che fu condotta in solitario e che collegò per la prima volta New York a Parigi con una tratta sola ! Lindbergh si assicurò il premio di 25.000 dollari stanziato qualche anno prima per chi ci fosse riuscito! Inoltre al momento della sua impresa i mezzi di informazione avevano raggiunto livelli tali da permettere di seguire il suo volo in diretta. Varie stazioni radio negli Stati Uniti, in Islanda, in Irlanda, in Inghilterra, in Francia, segnalavano il suo passaggio. A Le Bourget  migliaia di spettatori lo aspettavano in delirio! Con Lindbergh l’aviazione usciva da un periodo sperimentale, passando da una fase romantica a quella di utilizzo pratico. Dopo la sua impresa Lindbergh si adoperò in modo determinante per la creazione di una rete di collegamenti aerei non solo negli Stati Uniti.
Gli anni trenta furono particolarmente significativi per l’aviazione italiana. Nel 1933, dopo crociere effettuate nel Mediterraneo, 25 idrovolanti italiani, in formazione, collegarono l’Italia con gli Stati Uniti con una doppia traversata dell’Atlantico settentrionale (l’anno prima ci avevano già provato con successo su quello meridionale) sulla rotta Orbetello, Amsterdam, Reykiavik, Montreal, Chicago, New York, Azzorre, Lisbona, Roma. Fu un’impresa fantastica, citata in tutti i testi di storia aeronautica (sopratutto stranieri, visto che il realizzatore dell’impresa fu Italo Balbo, grande Ministro dell’Aeronautica, ma, ahimé, squadrista della prima ora!) che ne sottolineano ancora adesso la formidabile preparazione e realizzazione avanzatissima per quei tempi. Dai ricordi del generale Nannini, allora capitano, capo della seconda squadriglia, fu la prima volta che si realizzarono aerovie utilizzando emittenti in mare su navi attrezzate allo scopo. Gli aerei utilizzati furono i mitici Savoia-Marchetti di 24 metri di apertura alare, con due scafi contenenti il carburante e i radio goniometri per la navigazione strumentale. Avevano due motori Isotta Fraschini da 800 cavalli (nella trasvolata dell’Atlantico del Sud  erano Fiat da 600 Cv.). L’autonomia era di 2000 chilometri. La velocità media sul percorso fu di circa 270 Km/h. L’impatto sul pubblico americano, e non solo, fu enorme. Soprattutto determinò l’interesse per la potenzialità bellica dei grandi aerei e diede l’avvio allo studio dei bombardieri strategici americani che nella seconda guerra mondiale avrebbero contribuito alla distruzione del potenziale industriale nostro e tedesco, secondo le anticipazioni del nostro Dohuet !
Nel 1934 un idrovolante italiano, il Macchi Castoldi , stabilì il primato mondiale di velocità, per idrovolanti con motore a pistoni, a 710 Km/ ora, velocità fantastica a quei tempi e comunque tutt’ora imbattuto nella sua classe! L’aereo, pilotato da Agello, era propulso da due motori FIAT coassiali che fornivano 3000 cavalli di potenza e che agivano su due eliche coassiali controrotanti (per il che gli effetti giroscopici si compensavano rendendo più facile il pilotaggio particolarmente nelle fasi di rullaggio, decollo e ammaraggio). Il gruppo propulsore fu realizzato dall’ing. Zerbi, della Fiat, l’aereo dall’ing. Castoldi.
Nel 1937 il Colonnello Pezzi dell’Aeronautica Italiana su un monomotore Caproni (su cui non metterei neanche la mia fotografia!) biplano, salì a oltre 17.000 metri stabilendo un primato di quota battuto solo un paio di anni fa da un avveniristico aereo bimotore a pistoni, realizzato con i nuovi materiali di sintesi da uno dei più bravi progettisti tedeschi, pressurizzato, che salì però in tutto per tutto a 18.000 metri. Il problema della pressurizzazione Pezzi l’aveva risolto inserendo nell’abitacolo aperto del suo aereo uno scafandro da palombaro semirigido!
Ma, purtroppo, qualcosa di brutto bolliva in pentola. Lo sforzo aeronautico era mirato anche a ottenere macchine sempre più efficienti sotto il profilo bellico. Caccia veloci e bene armati, bombardieri di grande capacità di carico e autonomia. Sul finire degli anni trenta avevamo anche noi dei begli aeroplani.  Uno di questi, il mitico S 79, trimotore, vinse una importante gara aerea sulla rotta Istres-Damasco-Parigi, e compì a tempi di record la traversata dell’ Atlantico Meridionale. Aveva disegnato sulla fusoliera uno strano stemma: tre topini verdi. Nacque allora il modo di dire: “Ti faccio vedere i sorci verdi!”. Nelle diverse versioni l’S79 era dotato di tre motori da 1000 cavalli, Fiat o Piaggio o Alfa, e sviluppava una velocità di crociera di circa 400 km/h con una autonomia di 2.000 Km.
Si, avevamo dei begli aeroplani. Peccato che gli altri ne avessero dei migliori. Sull’esperienza della famosa gara “Coppa Schneider” per idrovolanti, un bravo ingegnere inglese concepì e realizzò uno dei più bei caccia della seconda guerra mondiale: lo Spitfire. Nelle sue 14 edizioni con i favolosi motori Rolls Royce Merlin da oltre mille cavalli di potenza, gli inglesi ne fabbricarono oltre 20.000 esemplari! Gli americani  realizzarono i loro grandi bombardieri strategici in grado di portare tonnellate di bombe. La loro bomba più grossa, la chiamavano  “il grande slam”, pesava 10.000 libbre, circa 5.000 chili  (la nostra ne pesava 850!, e il nostro S79 poverino aveva qualche difficoltà oltre i duemila chili di carico ). Per inciso gli americani fabbricarono, tra il 1942 e il 1945, 250.000 aerei (noi in cinque anni di guerra riuscimmo a metterne in linea 10.000!). I tedeschi non erano da meno. Anche loro produssero decine di migliaia di aerei, tra cui il mitico caccia Messerschmidt 109 e il meno conosciuto, ma più apprezzato dai piloti, Focke Wulf 190. Nella periferia di Vienna, ai margini del bosco viennese di straussiana memoria, in quel delizioso paesino che si chiama Modlig, dove dicono che Beethoven abbia composto la sua “Pastorale”, si vedono ancora adesso le strutture sotterranee in cave di sale, dove si costruivano gli aerei che poi decollavano dall’autostrada proprio lì a due passi. Nel 1944 costruirono più aerei che nel 1940! Erano un pò scarsi di bombardieri. L’Heinkel 111 era una bella macchina, bimotore, con un carico bellico limitato se paragonato ai quadrimotori alleati. Il bombardiere in picchiata, lo Stuka, fu una bella trovata, con dei grossi limiti: intanto portava una sola bomba, era lento e male armato per difesa.  Gli era andata bene in Polonia ( i polacchi, poverini, non avevano praticamente aviazione), ma in Inghilterra contro i veloci caccia inglesi, bene armati, avevano poche possibilità.
E noi? un buon motore Fiat da 840 cavalli armava tre caccia: il CR42, biplano con due mitragliatrici, l’ultima realizzazione del grande progettista della Fiat ing. Celestino Rosatelli , assolutamente superato dai monoplani inglesi con motori da 1.200 cavalli e 8 mitragliatrici, il Macchi 200 e il G50, realizzato dal Prof. Gabrielli, del Politecnico di Torino e Socio dell’Accademia delle Scienze, di cui si celebra il centenario della nascita. Sviluppavano velocità dai 400 ai 480 Km/h, contro i 600 degli inglesi! Ero sul campo di Reggio Emilia, nell’estate del 1943, allievo ufficiale pilota (volavo sul RO41, biplano, 400 cavalli!) e vedevo decollare il Re 2005 con il motore Daimler Benz da 1250 cavalli che i tedeschi ci fornivano e che armava anche i Macchi 202 e 205  e il G 55. Erano gioielli da boutique, ma ne facevamo pochi alla settimana!
Sul finire del conflitto il canto del cigno dell’aviazione tedesca: il Messerschmidt 262, lo “Schwalbe”, la rondine. Due reattori, 800 km/ora. Bellissimo, ma era troppo tardi.
E dopo? l’esperienza tragica della guerra proietttò l’aviazione civile in una dimensione planetaria. I nuovi motori a reazione che consentono velocità supersoniche, abbinati ai nuovi materiali che i chimici, nell’era della “plastica” realizzano (l’ortopedia e l’aeronautica non avrebbero fatto i passi da gigante che hanno fatto senza la chimica!) permettono di arrivare a performances inconcepibili 60 anni fa.
Se i fratelli Wright vedessero adesso centinaia di aerei attraversare in poche ore gli oceani, con centinaia di persone a bordo (per lo più annoiate, che  non guardano nenche fuori!)!.
E a proposito dei Wright, tutto sommato avevano cominciato a volare con degli alianti, prima di metterci su un motore. Quando ho cominciato a volare su alianti nel 1939 le macchine a disposizione (il mitico libratore Zoegling, aperto, senza strumenti, la velocità si valutava sul fruscio dell'aria!) avevano quella che chiamiamo “efficienza” su valori 10-12, il che vuol dire che da 1000 metri di quota potevano planare a 10, 12 km di distanza. Quando ho ripreso a volare all’inizio degli anni ’50, un buon aliante, lo Spatz, il Passero, da mille metri di km ne faceva 25/28. Oggi, con i nuovi materiali che consentono profili alari sempre migliori, con grandi meravigliose ali di 25 metri di apertura, gli alianti dell’ultima generazione di chilometri ne fanno anche 60!
I dati sugli ultimi primati realizzati con alianti sono perlomeno stupefacenti: record mondiale di quota realizzato nelle particolari situazioni che si verificano negli Stati Uniti sottovento alle grandi correnti ondulatorie provenienti da Ovest: oltre 14.000 metri con sgancio dall’aereo trainatore a circa 2000 metri ! Record di distanza realizzato in Nuova Zelanda 2002 km! Velocità su un percorso triangolare di 500 km 187,2 km/h! Si ha notizia di voli di 3.000 chilometri lungo la cordigliera delle Ande, a riprova non solo della perfezione delle macchine, ma anche dell’evoluzione delle conoscenze metereologiche.
E ancora la recente realizzazione in materiali compositi di una piattaforma volante a energia solare, da impiegare come satellite artificiale, di 70 metri di apertura alare, 700 Kg di peso, propulso da 65.000 celle solari azionanti motori a elica, telecomandato!
Insomma in cento anni l’ala ha fatto progressi che la vela e la ruota, altri due marchingegni che hanno rivoluzionato la storia dell’umanità, non hanno fatto in migliaia! Con l’ala la terra è diventata più piccola, ha permesso all’uomo di raggiungere in tempi brevissimi i più remoti angoli del pianeta, di intrufolarsi forse anche dove non avrebbe dovuto.
E’ vero siamo fatti “... per seguire virtude e conoscenza”! Ma non staremo  mica esagerando?



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